Il Custode dei Tamburi del Tuono

(ovvero: quando il Wi-Fi era fatto di legno e pelle di animale)

Nel cuore dell’Africa centro-orientale, verso l’800 a.C., mentre il resto del mondo ancora si chiedeva come non inciampare nelle proprie capre, c’era qualcuno che gestiva una rete di comunicazione più efficiente di certi call center moderni. Si chiamava Makoha il Lontano-Udito, e di mestiere faceva il custode dei tamburi del tuono.

Makoha aveva un dono: sentiva tutto.
Non “tutto” in senso vago. Tutto proprio. Se un tamburo batteva a trenta chilometri di distanza, lui lo sentiva come tu senti il vicino che trascina le sedie alle sette del mattino.

I tamburi non servivano solo per le feste, anzi. Erano una specie di social network preistorico: si mandavano messaggi tra villaggi, si annunciavano matrimoni, pericoli, arrivi di ospiti indesiderati (tipo la suocera del capo). Ogni ritmo aveva un significato preciso: tre colpi rapidi, “aiuto”; una serie lenta, “tutto bene”; una sequenza elaborata, “mandate birra e gente di buon umore”.

Makoha stava al centro di questo traffico sonoro. Seduto sulla sua roccia preferita, con l’aria di uno che aspetta la prossima notifica, ascoltava. Se fosse nato oggi, avrebbe avuto quattro smartphone, tre cuffie e l’ansia perenne. Invece aveva solo le orecchie. Ma che orecchie.

La sua missione era chiara: proteggere le “vie sonore”. Perché, come in ogni epoca degna di questo nome, c’erano anche i furbi: bande di predoni convinte di poter ingannare i villaggi imitando i messaggi. In pratica, i primi hacker del tamburo: niente phishing via email, ma colpi ritmati tipo “uscite tutti di casa, c’è un’offerta speciale di lance gratis nel bosco”.

Un giorno, nella stagione in cui il Nilo decide se allagare tutto o farsi desiderare, un tamburo lontano cominciò a parlare. Il messaggio era urgente: tutti i guerrieri dovevano radunarsi al Fiume della Pietra Rossa, c’era pericolo a est. Firmato: un villaggio alleato.

Tutto perfetto.
O quasi.

Makoha aggrottò la fronte. Il ritmo era giusto, la sequenza quasi impeccabile… ma la firma no. Quel villaggio, alla fine dei messaggi, aveva un “tocco” inconfondibile: un colpo secco, pausa e doppio colpo finale. Quel giorno, invece, arrivò un doppio colpo subito. Una sfumatura. Un niente. Il genere di cosa che chiunque avrebbe ignorato. Chiunque, tranne lui.

“Questo non è il nostro alleato” borbottò Makoha. “È qualcuno che suona come lui… ma non abbastanza bene.”

Invece di far radunare i guerrieri, Makoha fece il contrario: rimbombò con decisione sui suoi tamburi del tuono, avvisando tutti i villaggi:
“Non muovetevi. Possibile trappola. Preparatevi alla difesa. E controllate le scorte, che tanto non si sa mai.”

Mentre i predoni aspettavano fiduciosi il loro grande colpo al Fiume della Pietra Rossa, pronti a far scattare l’imboscata, scoprirono lentamente che… non arrivava nessuno. Nessun guerriero ignaro, nessuna colonna disordinata. Solo silenzio. E, in lontananza, il suono secco dei tamburi dei villaggi che si erano organizzati, stavolta, per accoglierli come meritavano: con lance, trappole e zero entusiasmo.

Il “cluster di villaggi”, come direbbero oggi quelli con le slide, fu salvo.
Makoha divenne leggenda: l’uomo che aveva fermato una razzia grazie a un colpo di tamburo leggermente fuori posto.

Da allora, i griot raccontano la sua storia aggiungendo una piccola morale: il mondo è pieno di rumore, ma a volte la differenza tra salvezza e disastro sta in un dettaglio minuscolo. O, come direbbe Makoha:

“Ascoltate meglio.
E diffidate sempre dei messaggi troppo perfetti.”

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